Ripartizione pensione di reversibilità

APS/ ottobre 23, 2019/ Angolo dell'Avvocato/ 0 comments

La ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge divorziato nella sentenza delle SU 24 settembre 2018, n. 22434

Avv. Bernardo Becci

Una questione da sempre controversa in giurisprudenza è quella della ripartizione della pensione di reversibilità tra coniuge superstite e coniuge divorziato titolare dell’assegno di mantenimento.

Infatti, il legislatore nel disciplinare i rapporti patrimoniali tra coniugi in caso di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha assicurato all’ex coniuge, al quale sia stato attribuito l’assegno di divorzio, il diritto a percepire la pensione di reversibilità[1].

Il diritto alla pensione di reversibilità all’ex coniuge trova, dunque, il suo fondamento e la sua ragion d’essere nel riconoscimento del diritto di percepire l’assegno di divorzio, per cui, ove esso manchi, all’ex coniuge non può essere riconosciuto il diritto alla pensione di reversibilità, sicché è di solare evidenza come tra i due istituti vi sia un legame inscindibile, per cui solo al riconoscimento del primo può essere riconosciuto il secondo.

Sul tema, tuttavia, in passato era intervenuta la Cassazione con l’importante sentenza delle Sezioni unite,  del 12 gennaio 1998, n. 159.

Con questo intervento la Cassazione scioglieva quello che veniva definito come il nodo di maggiore rilievo rimasto insoluto nella riforma del 1987, ovvero quello relativo allo status previdenziale del divorziato.

Infatti, la Suprema Corte riconosceva in capo al divorziato un diritto autonomo e concorrente in pari grado con quello del coniuge superstite all’unico trattamento di reversibilità, ovvero un’unica pensione con due aventi diritto.

La Corte, con la sentenza 159/1998, escludeva quell’orientamento che considerava il diritto alla pensione di reversibilità come un diritto nei confronti del coniuge superstite e ad una quota del trattamento di reversibilità concretamente fruito da quest’ultimo, dunque, un diritto avente la natura sostanziale di assegno divorzile[2].

Per la Corte l’ex coniuge si trovava in una posizione realmente autonoma conseguita in dipendenza della condivisione del rapporto coniugale e fondante aspettative economico-previdenziali, da ritenersi acquisite al coniuge in via definitiva e non vanificabili in conseguenza dello sviluppo degli eventi relativi al rapporto coniugale stesso, con l’interruzione di qualsiasi collegamento tra l’attribuzione pensionistica stessa e l’assegno di divorzio.

La normativa in vigore, secondo la Corte, parificava la posizione del coniuge superstite e quella dell’ex coniuge divorziato, basandosi sulla considerazione che la pensione di reversibilità recepiva la finalità assistenziale e solidaristica del matrimonio.

Tuttavia se l’assegno di divorzio e l’attribuzione della pensione di reversibilità avevano quale fondamento la continuazione della funzione solidaristica, ed il legislatore del 1987, poneva come condizione per il riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità per il coniuge divorziato l’essere titolare dell’assegno, non si comprende perché la natura della prestazione previdenziale doveva essere distinta dalla natura dell’assegno.

In risposta all’impostazione di Cass., sez. un., 159/1998, prontamente, la Corte costituzionale con la Sentenza n. 419/1999, non mancava di cogliere quella che, in realtà, si presentava come l’ambiguità di fondo della disciplina legislativa in materia, evidenziando che nel sistema legislativo e, quindi, pure nella fattispecie di cui al 3° comma dell’art. 9, <<si tratta di un diritto alla pensione di reversibilità, che non è inerente alla semplice qualità di ex coniuge, ma che ha uno dei suoi necessari elementi genetici nella titolarità attuale dell’assegno>>.

Ad onor del vero, deve rilevarsi, come la questione rimaneva controversa anche successivamente all’intervento delle sezioni unite, basti ricordare che successivamente la stessa Cassazione doveva rilevare che “non è facile non ravvisare contraddittorietà tra l’affermazione relativa all’autonomia della pensione di reversibilità e la sua contemporanea subordinazione alla ‘effettiva’ titolarità dell’assegno divorzile” (Cass. 457/2000).

Lo stesso intervento legislativo sull’art. 9 del 2005[3], laddove, richiede, per il divorziato, la condizione di essere titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, stabilendo che “per titolarità dell’assegno ai sensi dell’art. 5 deve intendersi l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale”, fa si che la posizione previdenziale del divorziato non possa essere considerata una posizione realmente autonoma che dà luogo ad un diritto autonomo ma deve ritenersi inscindibilmente legata al requisito imprescindibile della titolarità dell’assegno.

La stessa Corte costituzionale (Corte cost. 777/1988; Corte cost. 87/1995), aveva valorizzato, per giustificare la soluzione nel senso del necessario previo effettivo riconoscimento giudiziale di un assegno, la “configurazione del trattamento di reversibilità come prosecuzione della funzione di sostentamento del superstite”, in precedenza adempiuta dalla corresponsione dell’assegno a carico dell’ex coniuge pensionato.

Di recente, dovendo decidere in merito al ricorso presentato dall’ex moglie di un pensionato defunto, la prima sezione della Cassazione ha disposto la trasmissione alle sezioni unite rilevando un contrasto tra gli orientamenti di legittimità.

Il nuovo intervento delle sezioni unite[4] era richiesto per porre nuovamente rimedio al contrasto giurisprudenziale esistente circa la natura giuridica del diritto alla pensione di reversibilità e all’interpretazione da attribuire alla norma nella parte in cui pone come presupposto del diritto la titolarità dell’assegno divorzile.

Verrebbe da dire ancora una volta, in considerazione del fatto che ancora oggi non si riesce ad avere una qualificazione univoca della natura della pensione di reversibilità ed il rapporto tra questa e l’assegno di divorzio che rimane la precondizione necessaria al fine di riconoscere il diritto del coniuge divorziato a percepire la suddetta pensione.

Nella vicenda in esame, la Corte territoriale aveva negato il diritto della ricorrente a percepire una quota della pensione di reversibilità dell’ex marito, in quanto la donna aveva percepito l’assegno divorzile in un’unica soluzione.

Qui la particolarità della sentenza in esame era data dalla circostanza che la Suprema Corte era chiamata a risolvere la questione del riconoscimento del diritto alla pensione di reversibilità da parte dell’ex coniuge che abbia ricevuto in pagamento l’assegno di divorzio in un’unica soluzione.

Il giudice del merito aveva chiarito che la titolarità dell’assegno suddetto doveva avere il requisito dell’attualità, ovvero doveva essere in atto una prestazione periodica in favore dell’ex coniuge al momento del sorgere del diritto alla pensione di reversibilità.

In particolare, la prima sezione con ordinanza interlocutoria n. 11453/2017 rilevava il contrasto negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità circa la natura giuridica del diritto alla pensione di reversibilità e la interpretazione della norma (L. n. 898 del 1970, art. 9, comma 3) che pone come presupposto per il diritto alla pensione di reversibilità la titolarità dell’assegno di cui all’art. 5.

Nello specifico, l’ordinanza interlocutoria faceva riferimento alle sentenze nn. 159 del 12 gennaio 1998 e 12540 del 14 dicembre 1998 delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione che avevano affermato la natura previdenziale del diritto e alle sentenze della Sezione Lavoro (dalla sentenza n. 10458 del 18 luglio 2002 sino alle successive pronunce nn. 3635 dell’8 marzo 2012, 26168 del 30 dicembre 2015 e 9054 del 5 maggio 2016) e della Sezione Prima (sentenza n. 17018 del 12 novembre 2003) che pure riconoscevano la natura previdenziale del diritto alla pensione di reversibilità ma escludevano il concorso del coniuge divorziato se la corresponsione dell’assegno non era attuale in quanto convenuta dalle parti in unica soluzione mediante la dazione di un capitale o un trasferimento patrimoniale.

L’ordinanza interlocutoria rilevava per altro verso che le più recenti sentenze della Sezione Prima (nn. 13108 del 28 maggio 2010 e 16744 del 29 luglio 2011) ritenevano che la natura previdenziale del diritto era decisiva per rendere autonoma l’erogazione (e la funzione) della pensione di reversibilità dalla modalità di adempimento dell’obbligazione di natura solidaristica-assistenziale propria dell’assegno divorzile che, pertanto, poteva avvenire sia in maniera periodica che in unica soluzione.

Il Supremo Collegio evidenziava che il ricorso che aveva dato luogo a questo nuovo intervento di legittimità, si basava fondamentalmente sulla sentenza delle Sezioni Unite n. 159 del 12 gennaio 1998.

Ricorda, la Corte, le tre questioni interpretative affrontate dalla sentenza 159/1998 nell’applicazione del nuovo testo del terzo comma della L. n. 898 del 1970, art. 9 ovvero: a) la identificazione della natura del trattamento di reversibilità riservato al coniuge divorziato: se costituisse un diritto nei confronti del coniuge superstite e condividesse sostanzialmente la stessa natura dell’assegno divorzile ovvero se consistesse in un diritto autonomo, se pure concorrente con quello del coniuge superstite al trattamento di reversibilità, e quindi presentasse una natura prettamente previdenziale e una riferibilità soggettiva diretta in capo al coniuge divorziato nei confronti dell’ente previdenziale; b)  alla individuazione del criterio di determinazione della quota da attribuire al coniuge divorziato e in particolare se tale criterio doveva essere quello matematico e automatico, ancorato alla durata del matrimonio, ovvero temperato da altri elementi di giudizio, specificamente quelli utilizzabili ai fini della quantificazione dell’assegno divorzile, o, altrimenti, se la durata del matrimonio non fosse altro che uno fra gli altri criteri concorrenti e utilizzabili nella liquidazione dell’assegno divorzile; c) ai criteri per determinare la durata del rapporto e in particolare se si dovesse prendere a riferimento rigidamente la durata legale del matrimonio ovvero se si dovesse tenere conto della durata effettiva della convivenza tenendo quindi conto di una eventuale convivenza prematrimoniale ed escludendo invece il periodo di separazione precedente al divorzio.

La risposta delle Sezioni Unite del 1998 <<a queste tre questioni interpretative fu nel senso di considerare il coniuge divorziato titolare di un autonomo diritto al trattamento di reversibilità, potenzialmente all’intero trattamento, ma limitato quantitativamente dall’omologo diritto spettante al coniuge superstite; di escludere la utilizzabilità di criteri diversi da quello della durata del rapporto; di intendere per durata del rapporto la durata legale del matrimonio e pertanto di escludere la rilevanza, in pregiudizio del coniuge divorziato, dell’eventuale cessazione della convivenza matrimoniale prima della pronuncia di divorzio, o, in favore del coniuge superstite dell’eventuale periodo di convivenza more uxorio con l’ex coniuge che abbia preceduto la stipulazione del nuovo matrimonio>>[5].

La Corte, inoltre, rilevava come la sentenza n. 159/1998 <<ha avuto seguito nella giurisprudenza di legittimità per quanto concerne la affermazione della natura previdenziale del trattamento di reversibilità e il riconoscimento della pari dignità del diritto del coniuge divorziato e di quello del coniuge superstite. La giurisprudenza successiva tuttavia ha rivisto la configurazione automatica e predeterminata del diritto e ha superato le risposte date in quella sede dalle Sezioni Unite alla seconda e alla terza questione>>[6].

Nella sentenza la Cassazione ricordava, poi, l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 419 del 20 ottobre 1999, rilevando come la giurisprudenza di legittimità ha fatto costante applicazione, da allora, del criterio enucleato dalla Corte costituzionale in numerose pronunce fra le quali vengono richiamate <<quelle che sottolineano la funzione solidaristica del trattamento di reversibilità, diretta alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell’ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell’assegno di divorzio e con la condivisione dei rispettivi beni economici da parte dei coniugi conviventi (Cass. civ. sez. 1, n. 16093 del 21 settembre 2012, n. 26358 del 7 dicembre 2011, n. 10638 del 9 maggio 2007, n. 4868 del 7 marzo 2006, n. 15164 del 10 ottobre 2003)>>[7].

La Corte ha rimarcato, inoltre, che, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 1999, <<la giurisprudenza di legittimità ha escluso, in ragione del carattere solidaristico della pensione di reversibilità, che, nella ripartizione dell’assegno, in caso di concorso tra coniuge divorziato e coniuge superstite, aventi entrambi i requisiti per la relativa pensione, il criterio della durata legale dei rispettivi matrimoni comporti automatismi di qualsiasi tipo, dovendo il giudice del merito tener conto di ulteriori elementi, correlati alle finalità che presiedono al detto trattamento, e, tra questi, in primo luogo, dell’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato prima del decesso dell’ex coniuge >>[8](Cass. civ. sez. 1 n. 23379 del 16 dicembre 2004).

Tale affermazione, va sottolineato, sembrerebbe evidenziare come, al fine di determinare la quota di pensione di reversibilità da attribuire al coniuge divorziato, l’ammontare dell’assegno goduto dal coniuge divorziato tornerebbe ad essere un criterio del quale il giudice di merito deve tenere conto nella ripartizione della pensione.

Ciò in considerazione del fatto che la pensione di reversibilità, ponendosi come continuazione del sostegno economico correlato al permanere di un effetto della solidarietà familiare, sia strettamente correlata proprio all’assegno divorzile.

Come l’assegno, anche la pensione di reversibilità ha lo scopo di garantire al coniuge divorziato i mezzi adeguati al suo sostentamento.

Appare a chi scrive di fondamentale importanza tale affermazione, così come l’affermazione della Corte in merito al superamento della pronuncia del 1998, poiché ritiene <<non più invocabile la sentenza n. 159 delle Sezioni Unite del 1998 laddove identifica il fondamento della pensione di reversibilità nell’apporto alla formazione del patrimonio comune e a quello proprio dell’altro coniuge e nelle aspettative formatesi durante e per effetto del matrimonio. Se in particolare l’apporto alla formazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge può considerarsi elemento costitutivo della solidarietà coniugale e post-coniugale, che peraltro non impone necessariamente il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile, il presupposto per l’attribuzione della pensione di reversibilità è, invece, il venir meno di un sostegno economico che veniva apportato in vita dal coniuge o ex coniuge scomparso e la sua finalità è quella di sovvenire a tale perdita economica all’esito di una valutazione effettuata dal giudice in concreto che tenga conto della durata temporale del rapporto, delle condizioni economiche dei coniugi, dell’entità del contributo economico del coniuge deceduto e di qualsiasi altro criterio utilizzabile per la quantificazione dell’assegno di mantenimento>>[9].

Verrebbe da aggiungere che in questa logica sarebbe naturale che per la determinazione del quantum di pensione di reversibilità da attribuire all’ex-coniuge debbano utilizzarsi gli stessi criteri utilizzati per la determinazione del quantum dell’assegno divorzile.

Per la Corte, poi, anche la previsione, nella L. n. 898 del 1970, art. 9 della condizione che l’ex coniuge non sia “passato a nuove nozze” conduce, del resto, a correlare il diritto alla pensione di reversibilità all’attualità della corresponsione dell’assegno divorzile.

Aggiunge la Corte che se <<la finalità del legislatore è quella di sovvenire a una situazione di deficit economico derivante dalla morte dell’avente diritto alla pensione, l’indice per riconoscere l’operatività in concreto di tale finalità è quello della attualità della contribuzione economica venuta a mancare; attualità che si presume per il coniuge superstite e che non può essere attestata che dalla titolarità dell’assegno, intesa come fruizione attuale di una somma periodicamente versata all’ex coniuge come contributo al suo mantenimento>>[10].

La Corte, in definitiva, risolve il contrasto giurisprudenziale che ha determinato il rinvio della controversia alle Sezioni Unite con l’affermazione del principio di diritto per cui, ai fini del riconoscimento della pensione di riversibilità, in favore del coniuge nei cui confronti è stato dichiarato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, ai sensi della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 9 nel testo modificato dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 13, la titolarità dell’assegno, di cui all’art. 5 della stessa L. 1 dicembre 1970, n. 898, deve intendersi come titolarità attuale e concretamente fruibile dell’assegno divorzile, al momento della morte dell’ex coniuge, e non già come titolarità astratta del diritto all’assegno divorzile che è stato in precedenza soddisfatto con la corresponsione in un’unica soluzione.

Una considerazione finale circa la portata di questa importante sentenza che alla luce delle argomentazioni esposte può avere come conseguenza che, in via di principio, si possa escludere una posizione paritaria tra i coniugi (rispettivamente superstite e divorziato) rispetto alle quote della pensione di reversibilità e, soprattutto possa riaffermarsi che la continuazione della funzione solidaristica, dell’assegno prima, e della reversibilità poi, è necessaria per legare il quantum dell’assegno al quantum della quota di pensione da attribuire al coniuge divorziato.

È questa ipotesi, per chi scrive, ad avere una maggiore coerenza con il sistema delineato dal legislatore poiché considerare la pensione di reversibilità come forma di continuazione della funzione solidaristica dell’assegno divorzile, consente di dare rilievo alla condizione della titolarità dell’assegno di divorzio per il riconoscimento del diritto alla prestazione previdenziale per il coniuge divorziato.

Ciò necessariamente deve portare alla considerazione che la natura della pensione di reversibilità deve essere la stessa dell’assegno divorzile poiché con questo si pone in continuazione.

 

[1] Art. 9, L. 1 dicembre 1970, n. 898 e succ. mod.;
[2] Cass. 11 marzo 1990 n. 2003; Cass. 20 febbraio 1991 n. 1813; Cass. Sezioni Unite 25 maggio 1991 n. 5939; Cass. 27 marzo 1995 n. 5910; Cass. 20 aprile 1995 n. 7243 e Cass. 13 maggio 1996 n. 7980
[3] art. 5 della legge 28/12/2005, n. 263, in tema di attribuzione pensionistica al divorziato: quello, cioè, con cui si è voluto offrire una interpretazione autentica dell’art. 9 della legge sul divorzio;
[4] Cass. SU 24 settembre 2018, n. 22434.
[5] Cass. SU 24 settembre 2018, n. 22434;
[6] Cass. SU 24 settembre 2018, n. 22434;
[7] Cass. SU 24 settembre 2018, n. 22434;
[8] Cass. SU 24 settembre 2018, n. 22434;
[9] Cass. SU 24 settembre 2018, n. 22434;
[10] Cass. SU 24 settembre 2018, n. 22434.

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